E Venezia si infiamma per le lotte di Walesa nel nuovo film di Andrzej Wajda

di | 05/09/2013

L’Oriente in evidenza con Kim-ki Duk e Tsai Ming Liang

Walesa: Man of Hope

Una scena di “Walesa: Man of Hope” di Andrzej Wajda

Vincitore l’anno scorso con “Pieta”, torna fuori concorso in Sala Grande Kim Ki-duk con “Moebius”, accolto con molti applausi e pochi fischi nonostante il film – muto, e come sempre impeccabile nella messa in scena, le inquadrature e la fotografia – contenga: evirazioni, ingestione di organi genitali, doppio anzi triplo incesto, pratiche sado-maso. Per stomaci forti anche “The Unknown Known” dove Errol Morris intervista il “falco” Donald Rumsfeld, segretario di stato USA con Ford e Bush jr. e artefice di alcune delle pagine più oscure della storia statunitense recente come il campo di prigionia di Guantanamo, le torture di Abu Ghraib e la guerra in Iraq: tra machiavellismi da quattro soldi e una notevole faccia tosta il personaggio dimostra una volta di più la disarmante mediocrità del male. Parecchi fischi invece per “L’intrepido” di Gianni Amelio, soggetto interessante ma l’ottimo Albanese, molto credibile nel ruolo di un padre di famiglia separato che fa della precarietà una precisa scelta di vita, non basta a sollevare un film che non mantiene le promesse. Estremo oriente ancora in evidenza con “Jiaoyou” (Stray Dogs) di Tsai Ming Liang, che con questo film annuncia il suo ritiro dalle scene. Nel narrare le vicende di una famiglia allo sbando il film sublima molti dei temi cari al maestro taiwanese come marginalità, solitudine, caducità del corpo; e stavolta la simbiosi tra personaggi e ambiente è totale.

Ancora coppie in crisi in “La jalousie” di Philippe Garrel che affida al figlio Louis il personaggio di suo nonno che, in un bianco e nero spietato e desolante, abbandona sua moglie per essere poi lui stesso abbandonato dalla sua nuova compagna. Gianfranco Rosi racconta paesaggi, personaggi e storie attorno al Grande Raccordo Anulare in “Sacro GRA”, che riesce nella scommessa di rendere intimo e delicato la messa in scena di un oggetto rumoroso e sotto lo sguardo di tutti. La Mostra accoglie il premio Nobel per la pace Lech Walesa per la proiezione di “Wałę. Człz nadziei” (Walesa. Man of Hope), cronaca coinvolgente e mai retorica delle lotte degli operai dei cantieri navali di Danzica che avrebbero cambiato la storia dell’est europeo, narrata con lucido entusiasmo dal veterano Andrzej Wajda. Chiara metafora dell’apparente calma e normalità dell’Algeria nella tempesta che ha travolto i paesi del nord Africa, “Es-stouh” (Les Terrasses) di Merzak Allouache è scandito dalle cinque preghiere canoniche dell’islam che si dipanano indifferenti alle tragedie umane.

Dopo il bel “Harmony Lessons” della Mostra 2012, il cinema kazako conferma le sue ottime qualità con “Bauyr (Little Brother)” di Seric Aprymov: una messa in scena asciutta ed essenziale per entrare nel mondo del piccolo Yerken che, orfano di madre, abbandonato dal padre e in perenne attesa del fratello maggiore, affronta con la tipica disinvoltura dei bambini i piccoli e grandi problemi della vita di un villaggio di campagna. Al Lido sbarcano le scatenate Femen per presentare il documentario “Ukraina Ne Bordel (Ukraine is Not a Brothel)” di Kitty Green: dopo una prima parte giustamente celebrativa, entra in scena il fondatore e artefice del movimento, Viktor, mentre emergono conflitti e contraddizioni. Patrice Leconte sceglie uno stile classico per raccontare la storia, ispirata a Zweig, di “Une promesse”: due amanti non possono realizzare la loro unione che dopo un’estenuante attesa di sei anni ed una fedeltà decisamente d’altri tempi. “La reconstrucción” dell’argentino Juan Taratuto è il racconto controllato, intenso, emozionante e splendidamente interpretato del viaggio di un uomo alla ricerca della sua umanità perduta. Una riunione di ex-studenti si trasforma in una cena delle beffe in “Återträffen” (The Reunion) di Anna Odell, interessante esperimento tra “Festen” e von Trier di messa a nudo dei sentimenti e dell’impossibilità di affrontare da soli le proprie debolezze. Spazio anche per l’India off-Bollywood con il bel “Siddharth” di Richie Mehta, viaggio nei gironi infernali dell’India più povera di un padre alla ricerca del figlio scomparso.

L’accesso alla Sala Darsena è consentito solo con pneumatici da neve.

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