Appunti su Thomas Bernhard e Il soccombente: quel che vorremmo essere, quel che dovremmo essere, quel che siamo nonostante i nostri sforzi

di | 12/12/2020

Thomas Bernhard è uno scrittore austriaco, uno dei più grandi scrittori del Novecento europeo. In molti lo considerano disgraziatamente ostico. Chi lo apprezza lo considera uno scrittore di culto.
Non è un autore che lasci indifferenti, in ogni caso: come si dice? O lo ami o lo odi.
Questo articolo è un invito alla lettura di una delle sue opere più famose.
Lo spiegone della trama lo prendo pari pari dal sito di Adelphi, la casa editrice che tuttora pubblica il libro:

“A un corso di Horowitz, a Salisburgo, si incontrano tre giovani pianisti. Due sono brillanti, promettenti. Ma il terzo è Glenn Gould: qualcuno che non brilla, non promette, perché è. E presto diventerà una leggenda. Mentre Gould, un giorno, suona le Variazioni Goldberg di Bach, il suo amico Wertheimer si sente trafitto, annientato: sa che in quel modo non suonerà mai. E, se così sarà, la sua vita intera si rivelerà essere quella di un soccombente, come Glenn Gould stesso lo aveva chiamato. In questa scena sono racchiusi tutti gli elementi che segneranno il futuro dei tre amici. Gould morirà suonando le Variazioni Goldberg, raggricciato sulla tastiera, nel tentativo sempre rinnovato di essere non già un interprete al pianoforte, ma il pianoforte stesso, il suo Steinway. Wertheimer sarà travolto dalla meccanica feroce dell’emulazione, della debolezza profonda, dell’incapacità di essere unico e della coscienza di non esserlo. Il narratore, che è il terzo pianista, rinuncia anche lui al pianoforte, ma tesse una trascendentale partitura di prosa: questo libro”.

Una piccola, forse banale, sicuramente necessaria premessa

C’è arte e arte.
C’è letteratura e letteratura.
Senza voler scomodare duemila e più anni di teorie e dibattiti su cosa sia arte e cosa non lo sia, si potrebbe ipotizzare una divisione (sebbene niente affatto netta) fra ciò che serve a rassicurare e ciò che può portarci oltre quel che già sappiamo.
Potrei ipotizzare che sia questa una delle differenze fondamentali fra l’arte di consumo (intrattenimento, potremmo definirla) e l’arte intesa nella sua accezione più alta.
Accettata questa premessa, potrei addirittura ipotizzare che il concetto di portare oltre possiede come conseguenza primaria quella di recare danno al fruitore del prodotto artistico.
Diciamo così: qualsiasi opera degna di essere considerata, ricordata e tramandata come arte è un’opera che fa male, poiché costringe chi ne fa esperienza ad una ridefinizione degli spazi mentali; poiché obbliga ad abbattere convinzioni ben radicate nell’animo; poiché obbliga a porsi domande che si è soliti evitare.

Chi possieda estro e tecnica e li usi per intrattenere va verso la rassicurazione dello spettatore, accarezzandolo e ricordandogli che va tutto bene.
Chi quell’estro e quella tecnica li adoperi per dare uno schiaffo allo spettatore stesso, compie un’operazione propriamente artistica.

Attenzione: non è che un artista debba per forza farvi piangere. Il danno, lo schiaffo di cui parliamo sono metaforici e non significano necessariamente sofferenza, giusto? Lo schiaffo te lo dà Michelangelo quando vedi la cappella Sistina ma te lo dà pure Totò in Guardie e ladri.
E nemmeno dovremmo necessariamente dire che nell’arte non ci sia possibilità di lieto fine. Lo strattone della grande arte sta a significare che qualsiasi storia venga raccontata si trascina dietro interrogativi pesanti capaci di demolire qualsiasi stato di tranquillità, qualsiasi presa di posizione assunta come dogma (non tutte le prese di posizione, ma parecchie).

Esempio sul tema: I promessi sposi narra una vicenda al termine della quale ci sarà assoluzione per tutti, buoni e cattivi. Questo non toglie nulla alla carica devastante di una serie di vicende che ricordano la grettezza umana e tutte le umane miserie che ci appartengono e dalle quali, quotidianamente, distogliamo lo sguardo. Manzoni parla di giustizia divina ma non ci sottrae alla visione di una bambina morta di peste, nel momento in cui la madre le porge l’ultimo disperato saluto.

Essere e dover essere

Tutto questo preambolo per dire da subito che Il soccombente è un’opera d’arte nel senso alto del termine. Ed è un’opera che fa male perché precipita il lettore in un abisso di incertezza dal quale non si sa come venir fuori se non ammettendo debolezze e frustrazioni.

L’incedere tormentato e convulso della narrazione non lascia scampo.
L’io narrante parla ancora e ancora, di se stesso e dei suoi compagni di conservatorio Wertheimer e Glenn Gould.
Apparentemente, è proprio Glenn Gould ad essere protagonista, con il suo devastante e quasi inspiegabile talento che mette in moto la macchina del dubbio e rende Wertheimer e il narratore consapevoli di una inferiorità a cui non potranno (o non vorranno, qui decide il lettore) rimediare.
Il dovere e il volere essere che consumano quando si diventa consapevoli che non si potrà mai conquistare e tenere per sé il vello d’oro dell’eccellenza sono il focus del romanzo.

E se uno ci pensa attentamente, sono anche il centro della vita quotidiana di tante persone. C’è un’asticella fissata sempre più in alto, nella giornata di tante, troppe persone. Come un trofeo che vuoi afferrare e che rimane sempre a qualche metro di distanza da te, non importa come e quanto tu ti affanni a raggiungerlo…

Due giovani promesse della musica diventeranno promesse non mantenute perché assisteranno al miracolo delle esecuzioni del geniale Glenn Gould, apoteosi di tecnica e sensibilità.
Ineguagliabile anche per due musicisti di altissimo livello.
L’opera di Bernhard è come uno stiletto che va a conficcarsi in quello spazio che nei pensieri sta a metà fra l’immagine che di noi desidereremmo proiettare e il modo in cui finiamo per offrirci al mondo. Un coltello che gira nella piaga di un sottile dolore, piaga che chiunque si interroghi sulle sue aspirazioni sa di portarsi addosso.

Il segreto starebbe, e dico starebbe, nel considerare il percorso e non la meta, dicono alcuni. E dicono altri che non sia importante raggiungere o conformarsi a modelli illusori di perfezione, ma che sia fondamentale concentrarsi sui propri progressi.
Non devi raggiungere il livello di nessun altro. Devi solo concentrarti per essere in futuro migliore di quel che sei stato in passato”. Chissà dove l’ho letta, questa frase…
Roba che se ci si pensa è di una banalità disarmante e di altrettanto disarmante difficoltà di realizzazione.

Il protagonista sembrerebbe essere Gould, dicevamo. Alla fine, però, ci si accorge di essere stati tirati dentro al romanzo e di esserne diventati gli attori principali. Glenn Gould è un pretesto, è il termine di paragone che permette il doloroso giudizio; l’io narrante è presto sostituito dal lettore; Wertheimer non è che una proiezione, il capro espiatorio al quale attribuire colpe e fallimenti personali.
Le parole travolgono come l’incredibile esecuzione delle Variazioni Golberg che Gould incise negli anni cinquanta, e il lettore viene messo con le spalle al muro.
“Siamo quello che siamo e non abbiamo altra scelta”, dice Glenn Gould.
“Tutto in me è predisposto in maniera micidiale” sentenzia Wertheimer attraverso il ricordo della voce narrante.
Il voler essere naufraga definitivamente, insieme con l’aspirazione ad emendarsi dal peso dei propri fallimenti.

Un’altra frase che ho letto chissà dove, forse in un libro di marketing: “Veniamo giudicati in base a standard che noi stessi imponiamo”.
Ecco, forse bisognerebbe smetterla di imporsi degli standard e apprezzare maggiormente la bellezza di un sano lavoro su se stessi che già in sé contiene il migliore fra i traguardi quotidiani.
Ma vai poi a capire…

Speranze

Un’opera totalmente disfattista, dunque?
Niente affatto.
Come ricorda Flannery O’Connor, chi è privo di speranza non scrive romanzi.
La soluzione, la luce in fondo al tunnel, sta nella presenza di qualcuno che racconta la sua frustrazione e la rinuncia alla realizzazione di sé. Per quanto vi sia, in questo racconto, un senso di inevitabilità e di distruzione totale, dobbiamo ricordarci che il fatto stesso di avere a disposizione una storia altrui da giudicare come appartenente al nostro vissuto ci dà la possibilità razionalizzare, di renderci conto.
La storia diventa un dito puntato contro di noi. Un’invettiva che può legittimamente dare fastidio, ma è pur sempre l’occasione di valutare il nostro agire, nel momento in cui al nostro agire venga rimproverato il fatto di aver costruito castelli di sabbia che si sono sfaldati al primo attacco della marea.
E così, l’apparente accusa del romanzo diventa un invito a ridefinire e ridefinirsi, tanto più utile quanto più marcata è la consapevolezza che la propria ridefinizione passa attraverso il sacrificio e la rinuncia a convinzioni giudicate inamovibili.
Il dolore che l’arte della letteratura suscita non va in contraddizione con la speranza.
Al contrario, di qualsiasi speranza è fonte e alimentazione, se si ha l’umiltà di comprenderlo e metabolizzarlo.

E visto che ne abbiamo parlato…

Qui trovate esempi della grandezza di Glenn Gould (non solo le variazioni Goldberg).
Anche quell’Horowitz cui accennavamo all’inizio dell’articolo era un grandioso pianista.
Qui trovate alcuni esempi delle sue qualità.

Thomas Bernhard, Il soccombente, Adelphi, 1985 (ed. italiana)

 

 

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