Da icona della trasgressione a fenomeno da baraccone: la parabola del re del rock’n’roll all’ombra del famigerato colonnello Parker

Austin Butler in Elvis di Buzz Luhrmann
Non sono mai riuscito a prendere troppo sul serio Elvis: in confronto alla musica che si ascoltava in casa quando ero bambino (primi anni ’70), per esempio Velvet Underground, Doors, David Bowie e Patti Smith, the King era decisamente un po’ troppo “vecchio”, sia nel repertorio che proponeva che nell’immagine che dava di sé. E poi ogni volta che mi capitava di ascoltare un suo brano non potevo non pensare a personaggi come Bobby Solo o Little Tony, peraltro eccellenti musicisti nel loro genere, che comunque sembravano piuttosto voler rassicurare un pubblico un po’ turbato da personaggi dalle performances molto estreme come Iggy Pop. Per me quello non era il vero rock’n’roll, al massimo una versione un po’ più esotica di Peppino di Capri (anche lui grandissimo artista nel suo genere, senza ironia). Quando ad inizio film alle mie idee preconcette si aggiungono il logo rimaneggiato in stile Marvel della casa di distribuzione Warner Bros. prima dei titoli di testa e poi l’estetica kitsch delle prime sequenze mi sono trovato in uno stato d’animo parecchio indisposto per cui tutta la prima parte del film non me la sono goduta. Poi è arrivata la sequenza dello speciale natalizio, credo la migliore di tutto il film per la bellezza delle immagini, il ritmo del montaggio e l’ottimo dosaggio del climax. All’inizio ero un po’ confuso perché in quella sequenza emerge con chiarezza il carattere politicamente e socialmente sovversivo di Elvis per cui trovavo contraddittorio impostare tutto il film su un’estetica da circo. Certo, ci sono motivi fin troppo fondati dietro a questa scelta: il circo è il mondo da cui proveniva il colonnello Parker; e non è chiaramente un caso se la sequenza fondamentale in cui Elvis bambino rimane folgorato dal R&B rimanda ad ambientazioni da circo: l’esibizione del cantante blues si svolge in quella che potrebbe essere una roulotte da circo, mentre la funzione religiosa dei neri che cantano il gospel si svolge proprio sotto un tendone.
Ogni artista è per definizione rivoluzionario e innovativo, e quindi potenzialmente sovversivo. Ogni film che parli di un artista non fa che mostrare questa lacerante condizione tra la libertà creativa e il tentativo di normalizzazione imposto dalla società, con l’obiettivo di renderlo inoffensivo per l’establishment. Da questo punto di vista il film di Luhrmann è decisamente spettacolare ma bisogna anche dire che il regista ha avuto vita facile: già per il grande pubblico (me compreso) Elvis è sempre stato “quello che ha fatto successo sulle spalle dei neri”1, quindi la sua carica innovatrice è quanto meno discutibile, e che è finito ad esibirsi nei lussuosi e kitsch alberghi di Las Vegas, epigono di se stesso. E in più l’artefice del successo e della rovina di Elvis è uno che aveva mosso i primi passi nel mondo dello spettacolo proprio nei circhi e nelle attrazioni di bassa lega. Quindi l’estetica Marvel non solo è necessaria per la narrazione ma anche del tutto logica e naturale; e di conseguenza anche se può sembrare strano è invece del tutto logico che il personaggio del colonnello Parker, che all’inizio sembra imporsi come la figura centrale di tutta la messa in scena, ben presto sembri scomparire, mentre si tratta in realtà di una trasfigurazione: come un deus ex machina, un invisibile burattinaio che muove i fili da dietro le quinte, si trasforma nel mondo sfolgorante che ha creato, ci si dissolve, rendendo la sua presenza fisica ormai inessenziale. Insomma da quel momento in poi il film mi è piaciuto, ed ho anche rivalutato tutta la prima parte.
Nota a margine (ma neanche tanto): Luhrmann ha anche il merito di rendere (speriamo) definitivamente giustizia alla tesi citata poco fa di un Elvis razzista e ladro irriconoscente della musica nera. In questo film gli artisti neri fanno un’ottima figura: la sequenza in cui Big Mama Thornton canta Hound Dog mi ha fatto venire la pelle d’oca ed anche la sequenza dell’esibizione di Little Richard è molto ben girata. Bello anche l’uso nella colonna sonora di brani recenti e contemporanei, al di là della qualità dei singoli pezzi, in alcuni casi decisamente scarsa. Bravissimi tutti i protagonisti: un irriconoscibile Tom Hanks e questo Austin Butler che canta davvero bene: nelle sequenze in cui Elvis è giovane la voce è proprio la sua.