Il ruolo del caso, la magia come trasfigurazione di una realtà incomprensibile, la perdita di persone care: la formazione sentimentale ed artistica di un aspirante regista destinato a grandi cose

Toni Servillo, Teresa Saponangelo e Filippo Scotti in una scena di È stata la mano di Dio
È probabile che La grande bellezza sia nato davvero come omaggio a La dolce vita, o quanto meno ne abbia preso spunto per una riflessione sull’arte e la società da cui nasce, ma è chiaro che la filmografia di Sorrentino ha ben poche rassomiglianze con quella del maestro riminese. Per questo è un po’ sorprendente che il suo nuovo film cominci proprio con un tributo a Fellini, evidentemente con un giusto tocco di ironia se non proprio di affettuoso sarcasmo. Semmai altre sono le somiglianze tra i due artisti, come la visita nel palazzo del monacello, debitrice della sequenza della villa ancora de La dolce vita, o lo sguardo tenero e al tempo stesso impietoso sui parenti “strani”, come lo zio folle di Titta in Amarcord. Di gente stravagante ce n’è un po’ in tutte le famiglie, con la differenza che non tutti sono capaci di rielaborarli in maniera creativa e farne un’opera d’arte, sublimando la sofferenza in contemplazione. Di certo è il film di Sorrentino in cui più che in qualunque altro l’aspetto magico ha un ruolo determinante, e che non a caso si apre e si chiude con l’apparizione di un essere fantomatico e misterioso. In questo Sorrentino è particolarmente bravo nello sfruttare la capacità del cinema (e dell’arte in generale) di far apparire l’assurdo (o la follia) come accettabile e normale. E infatti la molla che fa scattare in Fabietto la voglia di fare cinema è una scena del tutto inattesa nella Galleria Principe Umberto, pure in una città che di certo non è avara di situazioni (apparentemente?) illogiche, o quantomeno inattese.
Il film si divide in tre parti: dopo una introduzione dell’ambiente familiare e dei personaggi che gravitano attorno alla famiglia, il trauma per la perdita dei genitori, con annessa riflessione sul significato del vedere e sul ruolo della visione nell’elaborazione dei propri sentimenti, e infine la maturazione della passione per il cinema. In ognuna di queste fasi c’è come un rito di iniziazione, un evento che ridefinisce i parametri con cui osservare e giudicare la realtà. La sequenza della morte dei genitori inizia in maniera tranquilla, che ovviamente non lascia immaginare la tragedia imminente, e si conclude con un crescendo con climax finale melodrammatico (con un parallelo tra la corsa in motorino e la corsa in auto: due atmosfere e situazioni completamente differenti): un evento traumatico che necessita di essere drammatizzato all’estremo, per catarsi, per evitare che resti non elaborato, comunque in una ambientazione ordinaria, fatto anche questo sorprendente e non usuale in Sorrentino ma in questo caso necessaria. Il trauma vissuto da Fabietto determina il passaggio dall’infanzia all’età adulta: per lui non c’è nessuna adolescenza (ammesso che esista e non sia una invenzione della società consumista), ed è giusto così perché si sa che ogni bambino è un artista, e il vero artista è precisamente quello che sa risvegliare la sensibilità infantile in sé e nei suoi spettatori. Quando Antonio Capuano dice infatti a Fabietto “non ti disunire”, non è tanto un monito a non dimenticare le origini ma piuttosto a fare uso della ricchezza che te ne è venuta, di mantenere il contatto con la città, che non chiede altro che di essere rappresentata, utilizzata.
Il numero tre ricorre anche nello sdoppiamento del protagonista: non sappiamo se Sorrentino abbia davvero un fratello e una sorella ma non ha importanza: sono un ottimo pretesto per mostrare efficacemente i differenti lati della sua personalità. Accanto al bambino sognatore vive un adulto disilluso e amaramente realista, ed una figura femminile che cerca di nascondere i propri sentimenti fino a lasciarli esplodere al di fuori di ogni controllo.