Le dune con la “d” minuscola di Dumont

di | 17/02/2024

In attesa del séguito di Dune, la farsa cosmica di Dumont tra extraterrestri fin troppo umani e terrestri fin troppo alieni

Fabrice Luchini in una scena di L'Empire di Bruno Dumont.

Fabrice Luchini in una scena di L’Empire di Bruno Dumont.

Con Bruno Dumont si va tranquilli: non si sa che cosa succederà, ma di certo non ci si annoierà. Il che non significa che piaccia a tutti, al contrario: durante la proiezione per la stampa di L’Empire qualcuno è anche uscito, ed alla fine della proiezione c’è stato anche qualche fischio. Dopo gli sciamani di Hors Satan e la giornalista di successo di France, stavolta è nientemeno che la lotta cosmica tra il bene e il male con astronavi dalla forma di cattedrali gotiche e palazzi reali che approdano sulle spiagge di un villaggio di pescatori, con tocchi di fantasy medievale per non farsi mancare nulla, e soprattutto per prendere atto che se fino a qualche decennio fa la fantascienza era soprattutto una metafora del futuro, oggi ci mostra soprattutto quanto stiamo tornando indietro in termini di libertà civili ed espressione della democrazia. Un Fabrice Luchini perfettamente a suo agio nel cattivissimo di turno e le abituali macchiette della provincia francese (stavolta siamo in Bretagna) tra effetti speciali all’ultimo grido e l’abituale perfetta direzione degli attori: in quest’epoca di lotta tra civilità e religioni Dumont aggiorna Il dottor Stranamore e prende talmente sul serio l’estetica della fantascienza e l’iconografia delle istituzioni civili e religiose che l’umorismo involontario non può che erompere fragorosamente.

Nella sezione Encounters Dormir de olhos abertos di Nele Wohlatz è una bella elegia sulla malinconia, la nostalgia e il senso di disorientamento dei tanti migranti, più o meno volontari, che attraversano il mondo e sulle tracce del loro passaggio: amori sospesi, oggetti perduti, .

Nella sezione Forum Reas di Lola Arias è un musical dove le “ospiti” di un carcere femminile, e le loro guardiane, di Buenos Aires, tutte attrici non professioniste, commuovono quando raccontano il loro vissuto, e ancora di più quando raccontano le loro speranze e aspirazioni all’emancipazione. La Arias lavora molto sulla luce ed i colori: negli esterni non si vede mai il cielo, eccetto una volta, ed è un cielo grigio; negli interni, tra i muri sbrecciati improvvise esplosioni di colore negli affreschi kitsch, tipiche dell’estetica delle classi più sfavorite. Non sono invece kitsch le storie che sentiamo: che si tratti di fare dello sport, di organizzare una sfilata di moda decisamente alternativa o di organizzare una festa di compleanno, per queste donne è fondamentale il collettivo, all’interno di gang nel passato, e in autentici moti di solidarietà in carcere. Dall’Argentina si torna in Germania, dove Narges Kalhor, tedesca di origine iraniana, ha un solo obbiettivo: cambiare il suo nome, Shahid, che dà il titolo al film e che in persiano significa “martire”. Con ironia, tra trafile burocratiche e deliranti sedute dallo psicologo, tra cantastorie e numeri di danza in costumi tradizionali, ancora una riflessione sull’identità e il peso del senso di responsabilità verso la propria famiglia, intesa in senso molto ampio fino a includere un intero paese, e la storia.