Smaccato elogio della società capitalista o (fin troppo) sottile contestazione dell’omologazione?

Margot Robbie nella sequenza iniziale di Barbie.
E se Greta Gerwig (e il suo co-sceneggiatore e compagno di vita Noah Baumbach) si fosse presa gioco della Mattel? E della Warner Bros.? E di tanti spettatori che, come me, pensavano di vedere un apologo, forse un po’ critico ma in fin dei conti conformista, di uno dei simboli del capitalismo? Si dice spesso che il diavolo si nasconde nei dettagli: in questo caso il messaggio sovversivo non viene inoltrato tramite immagini subliminali e neanche attraverso il personaggio della Barbie Stramba (Weird Barbie nella versione originale), bensì in una brevissima sequenza a metà del film.
Dopo più di un’ora di estenuanti discorsi pseudo intellettualistici e filosofici di una banalità sconfortante, e non per rendere il soggetto accessibile ai giovani perché i giovani sono giusto giovani, non idioti, almeno non più degli adulti che li hanno cresciuti, la nostra Barbie è in fuga dai capi della Mattel che la vogliono ricondizionare e, dopo un lungo inseguimento nella fabbrica di giocattoli, si ritrova in una specie di magazzino oscuro con una luce in fondo: una cucina di altri tempi dove vive una mite donna di mezza età che le offre una tazza di tè e le dice come mettersi in salvo. La scena è fin troppo chiara: questa donna si rivela essere Ruth Handler, la creatrice della Barbie, che apparentemente vive segregata nel quartier generale della Mattel e passa le giornate a bere tè e leggere riviste per donne. A rischio di fare un paragone improponibile, sarebbe stato troppo pericoloso e troppo banale per Gerwig proporre una sequenza come quella del teatro di protesta al convegno femminista all’inizio de La città delle donne1 e rappresentare sin dall’inizio Barbieland come una prigione dorata in cui tutti si impongono di essere felici in un atteggiamento di rimozione della propria condizione di alienati. Questa breve sequenza apparentemente innocua invece si insinua nell’inconscio e, magia del cinema, fa il suo lavoro di revisione critica di tutto quello che viene mostrato platealmente in un film che può essere tranquillamente definito “femminista” solo perché la protagonista è una donna mentre la creatrice di Barbie è raffigurata nella rassicurante (per i maschietti) immagine di donna di mezza età relegata in una cucina vecchio stile.
D’altra parte è difficile, almeno per me, capire a quale pubblico questo film sia indirizzato: la citazione dotta ad inizio film sembra suggerire che il film si rivolga non solo ad un pubblico di bambini e adolescenti ma anche ad un pubblico adulto. La domanda è se i fiumi di parole su femminismo, economia, realizzazione personale che inondano ogni istante in cui non ci sia un balletto o una canzone ben presto annoino gli spettatori più giovani e vengano trovati ridondanti e superficiali dagli adulti. In ogni caso è ancora troppo presto per pronunciarsi sulla cosiddetta generazione Y (nota anche come millennials): il dibattito tra psicologi e sociologi è ancora allo stadio delle dichiarazioni apodittiche e delle confutazioni più perentorie delle teorie avversarie. Nell’attesa, film come questo sono al momento forse lo strumento più adatto per comprendere le nuove generazioni, che mostrano tanta buona volontà per capire le cose per poi ammettere più o meno candidamente che risolvere i problemi della società richiede troppo tempo e che alla fine la cosa più saggia da farsi è un sano lavoro su se stessi. Con la pandemia abbiamo anche appreso che la parola magica è resilienza, e non è più di moda dare la colpa di crisi esistenziali e insoddisfazione nella vita privata come nel lavoro alla società: se ci sentiamo inappagati la responsabilità non risiede nelle strutture politico-economiche ma nel nostro atteggiamento e nel modo in cui vediamo le cose. Il capitalismo ha tanti difetti ma vale proprio la pena volerlo rendere “più umano”, quando invece c’è tanto lavoro da fare su se stessi? Da questo punto di vista il film è simbolico dell’approccio estetico (e quindi filosofico) di questa generazione: intanto la rassicurante condizione dell’omologazione, forse mai così evidente come in tempi come questi di forsennata ricerca dei likes, perché se è vero che la Barbie e il Ken standard emergono chiaramente rispetto alle altre Barbie e Ken, Barbieland rimane un luogo in cui ogni individuo è la copia pressoché esatta del bambolotto standard; e poi il carattere dei cosiddetti social media in cui le relazioni interpersonali non si svolgono più nella realtà ma virtualmente, tramite immagini ed emoticons, per cui è importante tenere presente in ogni istante che quello che viene detto e mostrato è solo un gioco che non va preso troppo sul serio, e nel migliore dei casi è solo un sogno: il viaggio di Barbie e Ken nel mondo reale, funzionale solo all’incontro tra Barbie e Sasha e Gloria, è ridotto a pochissime sequenze in cui tutti sono caricature, a cominciare dai capi della Mattel.
E probabilmente proprio per rendere più evidente la differenza tra il mondo reale e quello finto la scenografa Sarah Greenwood e il direttore della fotografia Rodrigo Prieto hanno scelto per Barbieland di riprodurre pedissequamente colori e forme delle Barbie commerciali: il film è uscito lo stesso giorno di Oppenheimer, e lo stesso protagonista del film di Nolan, Cillian Murphy, invitava ad andarli a vedere lo stesso giorno ma a parte la totale differenza del soggetto, probabilmente il confronto andrebbe invece fatto con un altro film uscito di recente, Asteroid City, giusto per avere un’idea di che cosa significa inventare o rielaborare un universo visivo volutamente finto.