Un dialogo sui dialoghi (ma quanto diamine parlano, nei film di Nolan e Tarantino?)

I due autori di questo articolo ragionano da anni sulla funzione dei dialoghi nel cinema e sulla loro importanza. Pensavano che scrivere un articolo sull’argomento avrebbe consentito loro di chiarirsi le idee. Neanche a dirlo, le loro buone intenzioni hanno generato una specie di saggio epistolare dopo aver scritto il quale sono ancora più confusi di quanto fossero prima…

Bologna, 27 marzo 2020.
ANTONIO: C’è una cosa che mi dà sempre da riflettere, tutte le volte in cui guardo un film o una serie; tutte le volte che leggo articoli o libri sul cinema; tutte le volte che ascolto un critico che parla.
La faccenda dei dialoghi.
Se ci pensi, è una faccenda allucinante. Prendi un qualsiasi scambio di battute in una pellicola; anzi prendi un qualsiasi scambio di battute in una grande pellicola, un film che giudichi bellissimo.
Ascolta i dialoghi, ascoltane l’efficacia, nota quanto sono equilibrati i botta e risposta, soffermati su quanto sia puntuale il linguaggio dei dialoganti (anche quando parlano in dialetto o slang).
Tutto questo è narrazione.
Tutto questo è comunicazione efficace nei confronti dello spettatore.

Tutto questo è…finto.

Prendi adesso la tua vita quotidiana e prova ad annotare i dialoghi di una tua giornata tipo.
Nel tuo elenco, probabilmente sintetico e per nulla esaustivo, troverai frasi che non vengono completate.
Troverai parole che vengono smozzicate perché nel momento in cui il tuo interlocutore le pronuncia si rende conto che non sono le parole più adatte al contesto.
E poi: frasi interrotte perché ogni partecipante alla conversazione inizia a parlare prima che l’altro abbia finito.

E soprattutto, i dialoghi privi di importanza. Vita quotidiana significa in genere pochi scambi significativi, un tot di scambi funzionali (il momento in cui parliamo di cosa preparare per cena, ad esempio) e molte, moltissime conversazioni in cui si parla “del più e del meno”. Normalmente, nel cinema sono pressoché inaccettabili, conversazioni di quest’ultimo genere. Ancor meno nelle serie televisive di produzione recente.
Ma…

Ma alcuni autori vanno controcorrente, proponendo nei loro lavori una riproduzione del parlato quotidiano che, se comunque non può dirsi realistica, può a ragione “mimare” certe caratteristiche di quotidianità. Dall’altra parte dello schermo, molti spettatori appaiono infastiditi o straniti da un tale approccio narrativo.
Altri, ed io fra loro, spesso si divertono a sentire i personaggi di un film parlare di cose totalmente (almeno in apparenza) irrilevanti allo svolgimento di una trama o un intreccio.
È uno dei motivi per cui mi piace il cinema di Tarantino.
E questa scena, entrata oramai di diritto nell’immaginario collettivo contemporaneo, ne è un esempio evidente.

 

Berlino, 10 aprile 2020.
DAVIDE: Tu dici che anche nei film che giudico più belli i dialoghi, per quanto ben fatti ed efficaci, quindi doppiamente ingannevoli, sono “falsi”. Anzi probabilmente sembrano tanto più belli ed efficaci quanto più sono falsi, per meglio dire artefatti. Ti faccio osservare che se è per questo in un film tutto è falso: le immagini, i personaggi, gli intrecci. E questo avviene anche nei documentari, che oggi forse non a caso non si chiamano più documentari ma “film di non-finzione” (traduzione poco elegante del termine inglese non-fiction films). È un argomento estremamente interessante ma che ci porterebbe troppo lontano.

Come per tutte le opere d’arte la prima domanda che ci si pone è: perché il regista ha girato questo film? Quali strumenti ha utilizzato e a quale scopo? E, nel contesto della nostra discussione, perché è ricorso a dialoghi apparentemente privi di interesse? I dialoghi sono un elemento essenziale in almeno due altre forme d’arte: la letteratura e il teatro. Il cinema, che in prima approssimazione può essere considerato una sintesi di queste due forme, se ne distingue per moltissimi aspetti, ma per semplificare il discorso penso che siamo d’accordo nel dire che il cinema si esprime essenzialmente attraverso immagini in movimento.

Certo, anche la letteratura evoca nella nostra mente delle immagini, e il teatro lavora sul nostro immaginario principalmente nell’aspetto visivo (anche se il teatro radiofonico, quindi limitato ai soli dialoghi, ha un suo fascino innegabile, ma forse in questo caso si tratta più di letteratura che di teatro vero e proprio), ma l’effetto di un film sul nostro immaginario, come ci insegna Edgar Morin1 va ben oltre il semplice racconto per immagini. Per mostrare la peculiarità del cinema in questo contesto torniamo al tuo punto di partenza: tu parli di dialoghi banali, prevedibili, tratti dalla vita quotidiana.

Ebbene la riflessione di Morin parte proprio dalla constatazione, sorprendente, che scene banali come l’uscita degli operai dalle officine Lumière o l’arrivo di un treno in stazione possano suscitare non solo l’interesse ma la meraviglia di milioni di persone, di qualunque ceto, genere, fascia d’età. E questo non succedeva solo agli albori del cinema, ma anche ai tempi nostri come dimostrano i film di Quentin Tarantino che piacciono non solo a te ma a tantissime altre persone. L’ultimo film di Tarantino che ho visto è stato Grindhouse – A prova di morte2, di cui considero la sequenza dell’incidente a metà film come una delle più belle di tutta la storia del cinema, certamente anche per come viene preparata, quindi con tutti quei lunghi, noiosi dialoghi che la precedono. Anzi forse quei dialoghi banali sono strumentali all’esplosione di violenza di quella sequenza, un po’ come tante sequenze apparentemente non funzionali alla trama di tanti film di Hitchcock. Quindi forse abbiamo trovato la risposta alla domanda posta all’inizio di questo paragrafo.

Al fondo della mia diffidenza verso i dialoghi nel cinema c’è il sospetto che troppe parole nascondano una sfiducia da parte del regista nel potere delle immagini animate e che si cerchi rifugio nei territori rassicuranti della letteratura e del teatro. Un altro regista della nuova generazione che secondo me inserisce troppi e inutili dialoghi nei suoi film è Christopher Nolan. Interstellar3 è visivamente molto potente ma mi sembra che Nolan sia troppo preoccupato di prendere per mano lo spettatore e spiegargli in ogni momento nei minimi dettagli l’evolversi della vicenda e soprattutto che le apparenti incoerenze nello scorrere del tempo sono conseguenza di consolidate teorie scientifiche, togliendo peraltro una buona parte del mistero che è parte essenziale del fascino del cinema (e ovviamente di altre forme d’arte). Tutto il contrario di quello che fa Kubrick in 2001: Odissea nello spazio4. L’obiettivo del regista era creare un’esperienza puramente visiva che doveva agire in primo luogo sull’inconscio dello spettatore. Il film è pieno di situazioni apparentemente inspiegabili, con innumerevoli allusioni alla mitologia, all’antropologia, alla psicologia, all’arte, laddove il libro omonimo di Arthur C. Clarke5 6 è prodigo di spiegazioni.

E a proposito di Kubrick: la scarsità di dialoghi di 2001: Odissea nello spazio in fondo è un’eccezione alla regola di un regista che ha fatto del parlato uno dei cardini del suo cinema. Film come Lolita7, Il dottor Stranamore8 e Full Metal Jacket9 devono ai dialoghi almeno quanto alle immagini. E nel film che contiene i dialoghi probabilmente meno aulici di tutta la sua filmografia, Eyes Wide Shut10, Kubrick era giustamente preoccupato di tenere un profilo basso. Il cosceneggiatore del film, Frederic Raphael, racconta che Kubrick non era affatto contento della scena del dialogo chiarificatore tra Bill Harford e Victor Ziegler nel finale del film11, e che di fronte alle rimostranze di Raphael di riscriverne i dialoghi e al rifiuto di Michael Herr di risistemare la sceneggiatura12 la riscrisse lui stesso…

 

Bologna, 19 aprile 2020.
ANTONIO: Giustamente hai fatto il punto sulla specificità del linguaggio cinematografico. Proprio aderendo a quel che hai detto, direi che ci troviamo di fronte a tre questioni:
1) La prima attiene ad un problema di equilibrio: Se è vero che ci troviamo al crocevia fra l’esperienza visiva e le eredità della letteratura e del teatro, mi azzardo a dire che quel che ti lascia perplesso sia lo spostamento dell’attenzione sul versante testuale. Certamente, qui c’è anche una questione di gusto (2001: Odissea nello Spazio è il film di Kubrick cui sono meno affezionato, proprio perché trovo la parte visiva troppo insistente).
Potremmo dunque estendere l’analisi, dal gusto personale a prospettive più generali. Se quel che dici è plausibile, potremmo quasi dire che la specificità del cinema gli consente di “eccedere” nell’informazione visuale senza che lo spettatore ne sia schiacchiato. Viceversa, l’abbondanza dei dialoghi – spesso territorio più fertile per altri linguaggi – rischia di disturbare l’esperienza filmica.

2) Sono dubbioso sulla possibilità di stabilire che un regista, uno sceneggiatore o chi per lui usi i dialoghi per mascherare insicurezza o poca fiducia nell’immagine: perlomeno, non credo sia un discorso fattibile in astratto. Caso per caso, possiamo fare analisi specifiche. In generale no.
Tarantino rientra per esempio nella categoria di quelli che hanno tantissima fiducia nell’immagine ma che scelgono di creare parte della propria poetica mescolando la potenza visiva a dialoghi che rispetto alle immagini proposte creano una sorta di dissonanza. Uno straniamento che ti tiene sempre sull’attenti.
Sergio Leone e i suoi sceneggiatori credevano nel dialogo breve con frasi ad effetto, lapidarie (non occorre fare troppi esempi, vero?). I film di Totò e Peppino trovano la loro forza in dialoghi, anche improvvisati, che danno alle pellicole più ritmo di quanto non facciano le inquadrature.

3) Caso per caso, possiamo fare analisi specifiche, dicevamo. Proprio riprendendo l’esempio di Interstellar (e qui ammetto la mia partigianeria, dal momento che amo Christopher Nolan) arriviamo alla seconda questione. Il cinema è industria culturale, e come ogni industria sceglie il suo pubblico, di fatto stabilendo a chi rivolgersi e chi trascurare. Interstellar, nonostante le sue qualità autoriali, è un blockbuster e Nolan è attento a portare la sua opera al grande pubblico, molto di più di quanto fregasse al Kubrick in 2001: Odissea nello Spazio.
Da ciò la necessità di spiegare le cose attraverso l’espediente del dialogo: Nolan pensa ad una varietà ampia di spettatori, molti dei quali potrebbero aver bisogno di piccoli “aiuti” per godersi la pellicola.
Una scelta mainstream che a me non dà fastidio, in generale.

 

Berlino, 30 aprile 2020.
DAVIDE: Pare che Monicelli una volta abbia detto che il cinema ha dato il meglio di sé ai tempi del muto. Forse è solo una leggenda (ho provato a cercare la fonte su internet ma non ho trovato nulla) ma mi sembra una bella provocazione per inquadrare ancora meglio la nostra discussione. La mia diffidenza nei confronti dei dialoghi nel cinema non è snobismo elitario o mero esercizio retorico ma un autentico interesse nelle potenzialità del cinema. Ed è nata, come spesso mi accade, semplicemente per un caso: per un malinteso mi è capitato di vedere dei film in lingue che non conoscevo, senza sottotitoli. Un po’ per pigrizia e un po’ per curiosità ho deciso di guardarli lo stesso e di fare di necessità virtù, concentrandomi sulle immagini, il montaggio, i suoni, l’espressività non verbale dei protagonisti. E mi sono reso conto che…

1) …più che disturbare, come dici tu, i dialoghi rischiano di impedire la ricerca: c’è ancora così tanto da esplorare nel cinema, e i risultati di queste esplorazioni non sono limitati al cinema d’autore, sperimentale, da sezione collaterale dei festival. Il primo esempio di cinema (quasi) mainstream che mi viene in mente è il lavoro di P. T. Anderson sul colore, i suoni d’ambiente, l’espressione attoriale non verbale. Tu mi dirai: cosa c’è di così interessante, o meglio cosa dà più valore, al rumore del traffico cittadino o al cinguettio degli uccelli in una foresta incontaminata rispetto ad un dialogo “superficiale”? La prima cosa che mi viene in mente è la novità, è un campo ancora in buona parte inesplorato. Probabilmente fra qualche anno ne avrò abbastanza e ne denuncerò la futilità, ma è giusto che sia così.

2) Mi citi Leone e Totò e Peppino come esempio delle qualità filmiche dei dialoghi, ma qui sfondi una porta aperta: io stesso ho riconosciuto l’importanza e la necessità dei dialoghi nel buon cinema, scomodando nientemeno che Kubrick. Faccio solo notare che le frasi lapidarie del Biondo (Clint Eastwood) ne Il buono, il brutto, il cattivo13 e i botta e risposta, sgrammaticati e surreali, senza dubbio debitori della commedia dell’arte, dei fratelli Capone in Totò, Peppino e la malafemmina14 sono tutto meno che dialoghi ordinari.

3) Per quanto a noi spettatori di inizio millennio possa sembrare strano se non impossibile, Kubrick come Rossellini, Pasolini o Fellini erano anche loro mainstream ai loro tempi, almeno stando a quello che leggo nei resoconti dell’epoca: ogni loro nuovo film era un evento e di solito riempivano le sale. Di certo sono cambiati i gusti del grande pubblico: ascolta la colonna sonora di uno dei maggiori blockbuster della fantascienza di fine anni ‘60, Il pianeta delle scimmie15: molto dissonante, forse addirittura atonale, di certo impensabile in tempi come i nostri di smielate musichette pianoforte e chitarra, rigorosamente tonali e il più possibile orecchiabili, quindi banali. Ne prendo atto: il grande pubblico oggi sembra incapace di apprezzare opere la cui complessità vada oltre quella dell’intrattenimento mainstream, ma questo non ci deve esimere dall’ambire a mete più elevate.

A questo proposito mi domando se il pubblico di 8 e ½16 ne cogliesse davvero tutte le raffinatezze. Quando si dice che un capolavoro come I soliti ignoti17, che ebbe un enorme successo di pubblico alla sua uscita, è una eccellente commedia si assume che la sua qualità principale risieda nella trama, nei dialoghi e nel suono delle lingue (dialetti, accenti) utilizzati, facendo passare in secondo piano l’estrema raffinatezza del lavoro sulle immagini: fotografia, profondità di campo, composizione delle scene all’altezza dei migliori noirs statunitensi e francesi, per non parlare della colonna sonora di Piero Umiliani. Il merito di Monicelli e di tanti altri registi di quel periodo è stato quello di educare un pubblico ancora in buona parte analfabeta, quindi a sua insaputa, al gusto per il linguaggio cinematografico.
Ma questo ci porta in un tema completamente diverso, forse l’argomento di un nuovo dialogo…

 

Bologna, 7 maggio 2020.
ANTONIO: E dunque abbiamo scritto un articolo sui dialoghi utilizzando un dialogo. E adesso, dal momento che abbiamo stipato questo pezzo di riferimenti di ogni tipo, ci toccherà scrivere di ogni film e libro citato.
Ma poteva andar peggio.
Poteva piovere (semi cit.).

  1. Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016. Ed. originale Le Cinéma ou l’homme imaginaire, Éditions de Minuit, Parigi 1956  
  2. Death Proof, regìa di Quentin Tarantino, USA 2007, 113’  
  3. Interstellar, regìa di Christopher Nolan, USA-GB 2014, 169’  
  4. 2001: A Space Odyssey, regìa di Stanley Kubrick, USA-GB 1968, 142’  
  5. 2001: Odissea nello spazio, Fanucci, 2016. Ed. originale 2001: A Space Odyssey, Hutchinson, Londra 1968  
  6. Non tutti sanno che il film non è tratto dal libro omonimo di Arthur C. Clarke ma ispirato ad un suo racconto, La sentinella (In La sentinella, Il saggiatore, 2004. Ed. originale Sentinel of Eternity, pubblicato sul primo (ed unico) numero di 10 Story Fantasy, Avon Periodicals, New York 1951). Kubrick chiese a Clarke di elaborare l’argomento del racconto e di collaborare alla sceneggiatura. Kubrick collaborò anche alla stesura del libro, ma per sua decisione non compare come autore.  
  7. Lolita, regìa di Stanley Kubrick, USA-GB 1962, 152’  
  8. Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, regìa di Stanley Kubrick, USA-GB 1964, 94’  
  9. Full Metal Jacket, regìa di Stanley Kubrick, USA-GB1987, 116’  
  10. Eyes Wide Shut, regìa di Stanley Kubrick, GB 1999, 159’  
  11. Eyes Wide Open, Frederic Raphael, Einaudi, Torino 1999. Edizione originale: Eyes Wide Open: A Memoir of Stanley Kubrick, Ballantine, New York 1999  
  12. Con Kubrick, Michael Herr, Minimum Fax, Roma 2009. Edizione orig. Kubrick, Grove, New York 2000  
  13. regìa di Sergio Leone, Italia-Spagna-Repubblica Federale Tedesca 1966, 175’  
  14. regìa di Camillo Mastrocinque, Italia 1956, 102’  
  15. Planet of the Apes, regìa di Franklin J. Schaffner, USA 1968, 112’  
  16. regìa di Federico Fellini, Italia-Francia 1963, 138’  
  17. regìa di Mario Monicelli, Italia 1958, 102’  

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