Dietro l’apparente pretesto di prendersi gioco dell’arte contemporanea il regista svedese mette in scena le contraddizioni delle società cosiddette avanzate

Una scena di The Square.
Viviamo in tempi decisamente interessanti in tema di arte. Marilyn Monroe e Jacqueline Kennedy-Onassis1 hanno rimpiazzato dei, santi e guerrieri; e invece di contemplare distese di nuvole sul bordo dell’abisso2 contiamo le cicche di sigarette su una tavola ingombra dei resti di una cena tra amici3. Ma se tutto è arte e, come direbbe Beuys4, tutti sono (siamo) artisti, che senso ha un museo di arte contemporanea? Basta guardarsi attorno, in qualunque momento, i capolavori sono intorno a noi. E infatti Christian, che si aggira con aria impassibile tra le sale del suo museo ed è un po’ annoiato quando deve spiegare alla giornalista Anne l’evoluzione del concetto di “bello” nell’arte, osserva invece con aria stupita e con estremo interesse i fatti della vita quotidiana, neanche tanto straordinari, nei quali si trova coinvolto. Coerentemente la messa in scena, ben lontana dal cosiddetto realismo del “dogma” tanto caro soprattutto ai registi scandinavi, è ordinatissima, controllata, geometrica, molto vicina all’analogo cinematografico del “white cube” che dovrebbe essere la cornice ideale di ogni opera d’arte contemporanea. Il culmine di questo approccio estetico, che sfiora ma miracolosamente non finisce nel kitsch del già visto mille volte, è la scena in cui Christian cerca di recuperare un numero di telefono nella spazzatura sotto la pioggia: visione dall’alto, evocatrice dell’ineluttabilità del destino, nelle mani di un dio o del caso non si sa. In un altro momento del film l’accesa discussione, questa volta di natura molto privata, tra Anne e Christian in una delle sale del museo è continuamente disturbata dal rumore generato da un’installazione: in questa sequenza è l’arte ad essere imperfetta e a turbare la bellezza formale di una scena di banale vita quotidiana.
La riflessione di Östlund sull’interscambiabilità tra arte e vita quotidiana rimanda inevitabilmente al dualismo che da sempre caratterizza il cinema, quello tra realtà e rappresentazione, tra oggettività e soggettività. Non sono affatto casuali le allusioni a Buñuel, che nel surrealismo aveva trovato uno strumento estremamente potente di sintesi tra critica feroce e spietata dei codici della società borghese ed estasi visiva. La terrificante performance dell’uomo-scimmia Oleg durante la cena di gala da cui nessuno sembra riuscire ad allontanarsi (con i camerieri che osservano increduli e divertiti) ricorda decisamente la situazione de L’angelo sterminatore5. Paradossalmente, miracolo del cinema e dell’arte in generale, è proprio il coinvolgimento emotivo che ci induce, o dovrebbe indurci, a riflettere pacatamente su chi è più “scimmia”: l’artista seminudo che molesta la giovane ed avvenente donna o l’orda di ricchi mecenati che lo picchiano selvaggiamente sfogando istinti primordiali?
Östlund alla fine dei conti è molto indulgente nei confronti dell’arte contemporanea, certamente più di quanto non lo sia il Sorrentino di La grande bellezza con la pseudo-Abramovic che si schianta contro un muro (anche se quella sequenza sembra piuttosto una critica al cinema contemporaneo, soprattutto italiano), ma di certo non lo è con la morale ipocritamente solidale della società contemporanea, soprattutto dell’alta borghesia e dei cosiddetti social media. Ma se Dio e Karl Marx sono morti (una frase erroneamente attribuita a Woody Allen6), dov’è la morale? Non è che i musei, e i film, servono proprio da alibi ad una società che ha perso tutti i punti di riferimento e con essi i codici morali?
- Andy Warhol Marilyn Monroe, 1967; Jacqueline Kennedy, 1964
- Caspar David Friedrich Der Wanderer über dem Nebelmeer, 1818
- Daniel Spoerri Tableau-pièges
- Joseph Beuys Vortrag Jeder Mensch ein Künstler – Auf dem Weg zur Freiheitsgestalt des sozialen Organismus, Achberg 1978
- El ángel exterminador, regìa di Luis Buñuel, Messico 1962, 93′
- https://en.wikiquote.org/wiki/Eugène_Ionesco