Non ridere, pagliaccio. Parte prima

di | 17/02/2020

Non so quante persone mi abbiano chiesto, negli ultimi mesi, un parere su Joker di Todd Phillips.
Un bel po’, comunque. E altre se ne aggiungeranno, dopo la notte degli Oscar.
Ho pensato di estrarre dalle conversazioni telefoniche con queste persone quel che più mi faceva comodo nella scrittura di una recensione bella e originale.

Ora; non saprei se classificare quel che ho scritto come bello e originale.
Perlomeno, si può dire che sia una recensione.

Nomi di fantasia, ovviamente.

Un Amleto statunitense

Roberto: “Tonino, dimmi un po’ che ne pensi di questa nuova versione di Joker. So che nel tuo cuore rimarrà sempre marchiata l’interpretazione del caro Heath. Ma secondo te Phoenix gli va vicino?”

Ha scritto qualcuno, o forse lo ha dichiarato proprio il regista del film, che Joker è l’Amleto americano. O, come si direbbe di un classico del jazz, è uno standard, una base sulla quale ogni interprete può innestare una personale narrazione.
Mai vero come in questo caso, in cui di Joker viene immaginata una genesi tale da far sconfinare il personaggio dalla caratterizzazione di “cattivo” ad una complessificazione che lo rende di fatto un “buono” che non può fare altro che reagire agli affronti cui la quotidianità lo sottopone.

Di fatto, Joaquin Phoenix e Todd Phillips non cercano alcun paragone con il clown dark descritto in The Dark Knight: visivamente, viene ripresa un’estetica classica, di fatto debitrice degli albori dell’uomo pipistrello. E di fatto, si tratta di un’estetica funzionale a far subito entrare lo spettatore nella mente di Arthur/Joker: gli abiti da clown significano un individuo che sinceramente vorrebbe dedicarsi a far ridere le persone. Laddove il trucco e le cicatrici di Heath Ledger comunicavano l’impenetrabilità di un individuo che vuole soltanto “vedere il mondo bruciare” e del quale non verranno mai svelati né l’origine né la sorte, le sembianze e l’apparenza di Arthur Fleck svelano i desideri frustrati e il disagio devastante di un aspirante stand-up comedian mentalmente problematico.
Il Joker di Ledger sa perfettamente quando ridere, laddove la risata di Arthur è frutto di un disturbo psichico noto come “risata patologica”.
Il Joker di Ledger guarda un mondo in cui tutti si atteggiano a brave persone e intende dare la dimostrazione del fatto che no, le brave persone non esistono. Basta far deragliare anche di poco la loro routine e si riveleranno per quel che sono: miserabili esistenze imbevute di egoismo e grettezza.
La volontà di Arthur è opposta: nel suo mondo le persone meritano, se non piena fiducia, la possibilità di dialogo. Arthur è alla ricerca di una occasione e ci prova, a parlare con le persone. Ma non ci riesce. Non riesce a parlare, non riesce a farsi ascoltare. E così come tanti fanno nella vita di tutti i giorni, sceglie (o è costretto) di alzare la voce nel modo sbagliato.

Nota: se vi interessa approfondire il tema delle analogie/differenze tra le due interpretazioni di cui ho appena scritto, potete dare un’occhiata a questo articolo.

Punti di passaggio

Andrea: “Anto, ma la storia dell’origine di Joker è proprio questa? Nel fumetto nasce così, il personaggio?”.

A pensarci, il fumetto aveva già abbozzato le origini di Joker, e tuttavia la DC comics non ha mai smentito né confermato che quanto raccontato in The Killing Joke (scritta da Alan Moore e disegnata da Brian Bolland, cui questo film deve senza dubbio più di un’ispirazione) o in altri albi ne fosse la genesi ufficiale.
Il cinema no, non ci aveva mai provato. O almeno, non aveva mai provato a dedicare una intera pellicola alla nascita di Joker. Men che meno, aveva dato a Joker la possibilità di esistere se non come antagonista di Batman.
Probabilmente perché non era pronto a farlo, finora.

Parliamone un attimo.

Il fumetto si è da tempo levato di dosso gli abiti del puro intrattenimento per indossare quelli più consoni di linguaggio completo e degno dei più profondi temi e delle più articolate riflessioni. Quei vecchi abiti, però, sono andati a cucirsi addosso alle trasposizioni cinematografiche dei comics, perlomeno se parliamo di cinema e fumetto occidentale. I giapponesi sono un’altra storia che in questo momento non occorre trattare.

Anche nelle sue declinazioni più autoriali (leggi: Tim Burton), fino al terzo millennio i film tratti dai fumetti sono generalmente classificabili come evasione, intrattenimento, azione, effetti speciali.
Bisognerà attendere Christopher Nolan per dare ad un cinecomic lo spessore del cinema “serio”.
La trilogia del Cavaliere oscuro è stata un ponte e dopo quel ponte c’era un varco da attraversare.
Ecco, Joker ha attraversato quel varco.
E in questo senso, ci sta pure che una volta attraversata la soglia del cinema impegnato, Todd Phillips e Joaquin Phoenix abbiano trovato rispettivamente un Leone d’oro e un Oscar ad aspettarli (oltre all’Oscar per la colonna sonora firmata da Hildur Guðnadóttir).

Joker è cinema impegnato che lascia perdere gli effetti speciali sbrilluccicosi del modello Marvel e sceglie la riflessione scartando l’intrattenimento.

Nota: se vi interessa farvi un’idea su The Killing Joke, leggete pure questo articolo.
Se invece conoscete già l’opera e volete approfondirne alcuni aspetti, eccovi serviti.

La politica

Roberto: “Comunque non sono d’accordo con l’ultimo messaggio che mi hai mandato. Non vedo nel fim la carica politica di cui parli. Non vedo tutta questa indagine sulla società e sulla dialettica con l’individuo. Il Joker di Ledger: lui sì che era politico. Parlava di Caos, dell’impossibilità della società a darsi un ordine; dell’insulsaggine delle regole. Qui tutte ‘ste cose non ce le vedo”.

È vero. Il rapporto fra società e individuo non viene indagato direttamente. Ma – e sia chiaro, è il mio discutibilissimo parere – viene fuori indirettamente eppure evidentemente dallo sviluppo del film. Il contesto sociale è accennato ma determinante nel definire Joker, esattamente come accade in Taxi Driver, film che non a caso viene citato come ispirazione della pellicola di Phillips.

Il punto è questo: i problemi sociali e tutto ciò che ha a che vedere con la dialettica fra pubblico e privato; non è necessario che tutto questo venga esibito e sbattuto in faccia allo spettatore, affinché si parli di contenuto politico.

Probabilmente, siamo ingannati dal fatto che troppo spesso, in ambito letterario e artistico, si definisce ciò che è “politico” nel senso tecnico del termine ( cfr. vocabolario Treccani: “La scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica”).

Indubbiamente, Joker non è un film che parla di politica in senso stretto. Ma è altrettanto evidente che proprio la declinazione della storia dal punto di vista dell’interiorità del protagonista inviti lo spettatore ad osservare un contesto generale che sta, per così dire, “fuori campo” ma che è fondamentale guardare con occhi bene aperti.

 

Nota: Desiderate soffermarvi sul paragone fra Joker e Taxi Driver? Qui trovate un’analisi interessante.

 

(continua…)

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