In una anonima località sperduta nella provincia statunitense i reduci dall’ennesima guerra umanitaria cercano di ricostruirsi un’esistenza
Il giorno e la notte, la realtà e il sogno, il passato e il presente, il bianco e il nero: Babak Jalali affronta il tema dei traumi dei profughi dall’Afghanistan utilizzando nella prima parte del film una fotografia netta, un montaggio rigoroso, una successione di eventi schematica. Superare i traumi della guerra, ricostruirsi una vita in un altro paese richiede ordine e rigore, disciplina e metodo. Ci vuole però spazio anche per il sogno, forse anche per l’inatteso, che può prendere la forma di uno psicologo che si scioglie in lacrime e un incontro galante imprevisto. Nella seconda parte del film invece la fotografia si distende, lasciando spazio a sfumature più sottili, la narrazione ed il montaggio si rilassano e c’è anche spazio per momenti surreali. A fare da ponte tra queste due parti i momenti nella piccola fabbrica dei fortune cookies: una attività commerciale non a caso tenuta da un asiatico da cui ci si aspetta un atteggiamento puramente utilitaristico e che invece dimostra una sensibilità e una umanità così lontane dall’arido mercantilismo occidentale.
Con Fremont1 Jalali continua la sua riflessione sugli effetti delle guerre che ormai da decenni affliggono la sua regione di origine, e sulle inevitabili conseguenze sull’identità dei protagonisti e gli shock culturali di incontri, o per meglio dire scontri, di civilità forzate a convivere. Collabora alla sceneggiatura Carolina Cavalli, anche qui un incontro apparentemente inatteso ma probabilmente determinante nella definizione della psicologia della protagonista, una donna colta e consapevole del proprio valore e quindi decisa a difendere la propria autonomia.