Le verità sfuggenti di Kore-eda

di | 20/11/2024

Kore-eda si interessa alle famiglie, in particolare a quelle disfunzionali

Sōya Kurokawa e Hinata Hiiragi in una scena di Monster.

Sōya Kurokawa e Hinata Hiiragi in una scena di Monster.

Dove, ad esempio, i genitori insegnano ai figli a rubare. Ma si tratta di famiglie in cui i legami emotivi sono spesso più forti e, paradossalmente, più sani che nelle cosiddette famiglie normali. Ci affezioniamo quindi a questi personaggi, soprattutto ai bambini, e ci rattristiamo quando vengono colti sul fatto. Innocence, invece, inizia con il ritratto di un bambino piuttosto problematico. Minato, come viene chiamato, è convinto di avere il cervello di un maiale e di essere quindi un mostro. Nella prima sequenza, vediamo un grattacielo in fiamme: potrebbe essere Minato ad aver dato fuoco a un bar di prostitute all’ultimo piano. Si dice che questo bar sia frequentato dalla sua insegnante, che lo accusa di bullismo nei confronti di una compagna di classe. Ma ben presto si scopre che questa è solo la versione dei fatti di sua madre.

Perché Kore-eda ci offre altre due versioni: quella dell’insegnante e quella di Minato. Mostrare la stessa storia da diversi punti di vista è tipico di un thriller. E questo è un film di suspense sui sentimenti e sulle regole della società. Kore-eda gioca sul montaggio delle scene, sui campi e controcampi per sfidare le nostre idee preconcette. Insomma, la cosiddetta “verità” dell’immagine cinematografica. E la cosa più affascinante è che anche dopo aver visto le tre versioni e aver conosciuto le motivazioni di ogni personaggio, è impossibile sapere chi ha ragione. Forse siamo accecati da troppa conoscenza, come nell’ultima sequenza in cui, dopo il buio della tempesta e la fuga nella foresta, torniamo alla piena luce del sole e l’immagine è sovraesposta, bruciata, in loop con la prima immagine del film, quella dell’edificio in fiamme. È interessante notare che il titolo francese del film, L’innocence, è quasi l’opposto di quello originale, Monstre: sembra che nemmeno due ore di immagini e suoni, e le testimonianze dettagliate di tutti i protagonisti, siano sufficienti per capire chi è il mostro e chi è l’innocente. Ma un bambino di dieci anni deve, vuole capire, ha bisogno di dare un nome a ciò che vede, a ciò che sente. Quindi, come dice la direttrice a Minato, devi esprimere ciò che non puoi dire in altro modo. E per mostrargli come fare, inizia a fare musica, o meglio suoni un po’ disarticolati, al limite della cacofonia, con uno strumento che non ha mai suonato in vita sua. Un atto catartico, in cui le note “sbagliate” simboleggiano la stranezza dei suoi sentimenti. O meglio, la loro unicità.

E a proposito di musica, questo film presenta anche l’ultima colonna sonora composta ed eseguita dal maestro Ryuichi Sakamoto. Il maestro è morto di cancro un mese prima della prima di Cannes. Sakamoto è stato uno dei grandi della musica elettronica e per il cinema sembra l’Ennio Morricone d’Oriente. Ha vinto un Oscar per L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Già gravemente malato, Sakamoto era riuscito a completare due brani, ma si era dichiarato incapace di produrre l’intera colonna sonora. Di fronte all’insistenza di Kore-eda, decise di rielaborare la musica che aveva composto in precedenza. Il risultato sono brevi melodie con piccole variazioni che si evolvono in strutture più complesse. È anche un modo per rappresentare i loop mentali dei protagonisti, sottolineati da note fisse sostenute, quasi degli acufeni. Da un lato, l’uso dell’eco nei brani per pianoforte solo aggiunge una dimensione esoterica e assoluta a un’ambientazione altrimenti ordinaria: quella di una città anonima e di una scuola comune. Dall’altro, suggerisce un altro significato ai giochi che i due protagonisti fanno nel loro luogo segreto.