Uno sguardo diverso e, soprattutto, un approccio diverso al tema della violenza a spirale, spesso presente nel cinema messicano

Kevin Aguilar in una scena di Sujo.
Hijo de sicario: siamo negli abissi più oscuri della violenza dei cartelli? Molti film messicani, anche d’autore, ci mostrano una società in cui la violenza sembra occupare un posto fondamentale. I cartelli della droga sono ovunque: nelle grandi città e nei villaggi più remoti. E nella maggior parte dei casi, la situazione è senza speranza. Per esempio, in una scena di Sundown, un recente film di Michel Franco, Neil, un ricco uomo d’affari londinese in vacanza in Messico, sta sorseggiando un cocktail sotto l’ombrellone su una spiaggia assolata di Acapulco. All’improvviso, una moto d’acqua guidata da due uomini appare all’orizzonte, si avvicina e spara a un uomo a pochi metri di distanza. In Hijo de Sicario, come suggerisce il titolo, siamo ancora in piena mafia messicana e la storia è quella del figlio di un sicario e del suo tentativo di sfuggire a un destino che sembra segnato. Ma lo fa in un modo molto diverso da molti film sullo stesso tema, sia in termini di soluzioni narrative che estetiche. A mio parere, questo lo rende una delle migliori opere sul tema degli ultimi anni. Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Sundance, un premio che ritengo pienamente meritato. La sequenza di apertura è già molto rivelatrice: il film inizia con un cavallo da fiera che si libera dalle briglie e fugge nella natura. Un bambino, Josué, è stupito da questo animale, dalla sua bellezza e probabilmente anche dalla sua indocilità e libertà. Da grande, Josué è diventato un sicario del cartello della droga. Ha avuto un figlio, Sujo, che ha perso la madre poco dopo la nascita. Josué ama sinceramente suo figlio, è tenero e protettivo. Probabilmente perché pensava che Sujo avrebbe seguito le sue orme da adulto, Josué riteneva naturale portare con sé il figlio di 4 anni nelle sue missioni. Tuttavia, si assicurò che il bambino non vedesse mai il padre commettere un omicidio. Durante una di queste spedizioni, qualcosa va storto e Josué viene ucciso, lasciando Sujo completamente orfano. D’ora in poi, Sujo sarà accudito dalla sorella di Josué, Nemesia.
Le registe hanno scelto di raccontare la storia dal punto di vista di Sujo. Da bambino, non può vedere ciò che fa il padre; solo i suoni e l’atmosfera gli dicono che il mondo intorno a lui è permeato da qualcosa di malvagio. Come quando un sicario irrompe in casa per ucciderlo: nascosto sotto un tavolo, Sujo non vede nulla ma ascolta le accese discussioni e se la fa letteralmente sotto. Da adolescente viene reclutato dal cartello, con i cugini Jai e Jeremy, suoi unici amici, ma le sparatorie sono sempre viste da lontano, o solo accennate. Per salvargli la vita, Nemesia decide di mandarlo a Città del Messico. Nella capitale, Sujo, un giovane adulto, si tiene lontano dalla malavita, e tutto ciò che vediamo durante le sue escursioni è una sorta di incontro di boxe, più folcloristico che realmente mortale. Quindi la violenza più cruda, a cui ricorrono spesso e forse troppo gratuitamente tanti film che trattano questo tema, qui non viene mai mostrata. Al contrario, è proprio perché la società è satura di crimini che i registi ci mostrano che non è necessario mostrarli, che si può e si deve andare oltre. Si concentrano invece sulle possibili vie d’uscita da questo circolo vizioso.
Mostrare le cose in modo diverso per incoraggiare le persone a vedere altri aspetti della vita, forse inaspettati: mentre il Messico sembra sprofondare in una spirale di violenza intrattabile, questo film è piuttosto un messaggio di speranza. Nemesia, che si occupa di Sujo, vive in una baracca isolata in campagna, senza elettricità. A un certo punto del film, un sicario che sospetta che lei nasconda il figlio di Joshua la chiama “strega”. Lo stesso Sujo a volte vede la zia come un personaggio fantastico. Soprattutto nel buio della notte o nei suoi sogni. Forse non è necessariamente una fata, ma di certo ha poteri soprannaturali. All’inizio Sujo è intimidito dalla flora e dalla fauna che circondano la capanna, ma presto si abitua e impara a rispettarle. Come quando una cavalletta si posa sul suo braccio e, invece di schiacciarla come si farebbe istintivamente, la raccoglie delicatamente e la mette sul ramo di un albero, sussurrandole di andarsene in silenzio. Ma vivere per sempre lontano dal resto del mondo non è una soluzione. Sujo dovrà recarsi nella metropoli di Città del Messico per vedere se il suo destino è segnato per sempre o meno.
Più che di una vicenda di cronaca nera sembra trattarsi di mitologia, dove il ruolo delle donne è spesso quello di andare contro le regole: senza dubbio questa storia è un’autentica tragedia. Ho trovato molto appropriato e rivelatore che i protagonisti abbiano nomi tratti da miti greci o biblici: Giosuè, il fratello di Mosè, l’uomo dei Dieci Comandamenti, e Nemesia, la dea greca della vendetta e della giustizia. Per quanto riguarda Sujo, solo alla fine del film, dopo un lungo viaggio, apprendiamo il significato del suo nome di battesimo. Ma per tornare al tema della leggenda, mi è piaciuto molto il fatto che sia stato diretto da due registe messicane, Astrid Rondero e Fernanda Valadez, che hanno già vinto diversi premi. E il ruolo delle donne nel film: prima vista come strega, non a caso è Nemesia a salvare la vita di Sujo. E dopo di lei, un’altra donna. Come in tanti film, tra cui il notevole I semi del fico selvatico di Mohammad Rasoulof, sono sempre le donne a tenere in vita una società altrimenti destinata alla distruzione da parte degli uomini.