Altri giri di giostra

di | 17/04/2018

A Visions du réel in scena il disagio mentale e la speranza nelle (e delle) nuove generazioni

Una immagine di "To Be Continued" di Ivars Seleckis.

Una immagine di “To Be Continued” di Ivars Seleckis.

Tra le tante scelte coraggiose di questa edizione di Visions du réel una delle più riuscite è quella di dare spazio non solo alle grandi tematiche storiche e sociali, di sicuro successo, ma anche ad argomenti che possono mettere a disagio: è il caso di “À l’infini” di Edmond Carrère, girato all’interno di una istituzione che si occupa di adulti in stato di disagio psichico grave. Il film richiede una certa dose di pazienza e resistenza perché non c’è mai un momento di pace: pazienti e medici sono sempre alla ricerca di un punto fermo, di un equilibrio tra paranoie e rari momenti di calma, psichica e fisica. Un equilibrio talmente precario che è indispensabile aggrapparsi agli altri: i malati ai medici, il regista alle persone più vicine, da cui i primi piani estremi, soprattutto nelle sequenze iniziali, e l’uso dell’obiettivo anamorfico per uscire dalla claustrofobia di vite che sembrano ruotare continuamente su se stesse senza via d’uscita. Di grande forza la sequenza finale: per calmare un paziente in stato particolarmente agitato una psichiatra ha costruito un piccolo teatro in una valigia, e in questo teatro fa muovere delle sagome di cartone che rappresentano lei stessa e il suo paziente. Il cervello letteralmente in una scatola (cranica): una scelta estrema dettata dalle circostanze, il bisogno di ridurre una complessità insostenibile, la creatività come unica via d’uscita dalla follia, l’invenzione come cura/antidoto alla ripetizione, per inter(rompere) il circolo vizioso delle fissazioni.

Nella sezione dedicata ai medio e cortometraggi due film da vedere soprattutto come esperimenti di giovani autori che si interrogano sulla natura stessa del cinema: come doppio rispetto alla realtà, in senso migliorativo o peggiorativo secondo lo stato d’animo. In “Facing the Beast” di Emma Benestan e Adrien Lecouturier, la prima documentarista, il secondo regista di film di finzione, seguiamo l’adolescente Théo nella sua iniziazione come “manadier”, allevatore di tori e vacche. In un territorio chiuso, soprattutto quello della sua testa, si capisce presto che in realtà Théo non ha scelta. Dalla Camargue al medio oriente: in “Ours is a Country ofWords” il belga Mathijs Poppe si addentra nel mondo dei rifugiati palestinesi in Libano: un luogo anche questo chiuso, una comunità molto unita e solidale, mentre la lontana Palestina appare sempre di più come luogo immaginario, un sogno irraggiungibile. Ancora una volta scopriamo che la distinzione tra documentario e film di finzione strettamente parlando non esiste: con il pretesto – assolutamente giustificato – di rappresentare nel primo caso i vincoli dettati dalla mancanza di alternative lavorative e nel secondo il bisogno di denuncia delle condizioni in cui vive la comunità palestinese in esilio, questi due piccoli film mostrano il potere del cinema di suscitare l’attitudine alla fotogenia, l’atteggiarsi nel momento in cui si è coscienti di essere ripresi.

Ivars Seleckis, documentarista lettone di lunga esperienza, annuncia il suo ritiro con un film dedicato alle nuove generazioni dal titolo emblematico: “To be continued”, allusione al ciclo della vita e alla bellezza e importanza di documentare. Presentato nella sezione Grand angle, il film è il diario di un anno nella vita di cinque bambini, sempre in bilico tra intimismo e la tendenza al protagonismo tipico di quella età.

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