Il rave nel deserto

di | 07/06/2017

La storia di due insoliti rifugiati nel documentario di Sue Meures

Raving Iran

“Raving Iran”

La musica dance elettronica del rave si trasforma lentamente in un canto religioso, mentre decine di giovani donne e uomini danzano come in estasi: è uno dei tanti corti circuiti emotivo/razionali di questo documentario con il suo ironico, ma spesso estremamente (inevitabilmente) serio, accostamento tra religioni divine e pagane, il suo mettere in discussione molti luoghi comuni e idee preconcette. Il film comincia con una cronaca di quanto ancora oggi certe forme di svago vengano considerate peccaminose, indecenti, pericolose, per poi trasformarsi in una più ampia riflessione sulle scelte di vita, le loro motivazioni, le modalità con cui si arriva ad una decisione. E la musica non è solo un pretesto: è alternativamente un fine, uno strumento, e una visione della vita.

Stilisticamente “Raving Iran” è nettamente diviso in due parti: una prima parte documentaristica, fredda e distaccata cronaca di quello che può succedere a chi vuole organizzare un concerto (probabilmente con droghe) in un regime teocratico, ed una seconda parte che assume i toni del film di finzione, con le tribolazioni dei protagonisti di fronte alla scelta se fuggire o restare. L’aver impostato la prima parte secondo uno stile documentaristico sembra apparentemente una scelta obbligata, dettata dalle difficoltà oggettive nell’affrontare un tema tabù, sottoposto a misure repressive molto drastiche da parte delle autorità iraniane. L’unità narrativa però è conservata: le premesse delle decisioni finali sono già tutte nella prima parte del film, dove tutti i fatti raccontati non sono altro che un invito a partire, compongono un quadro in cui tutto e tutti dicono a Anoosh e Arash di andarsene.

Nella prima parte la negazione si manifesta attraverso facce nascoste, dialoghi con funzionari del ministero o semplici interlocutori in cui si vede solo una parte, l’altra essendo nascosta per proteggere l’identità di persone che potrebbero incorrere in sanzioni anche gravi, oppure per dissimulare la telecamera e rendere possibile la realizzazione stessa del film. Quindi nessun controcampo, circostanza che si trasforma in assenza di un vero dialogo: le decisioni sono già state prese, o sono state prese da qualcun altro, per esempio attraverso i tanti divieti, per cui in realtà non c’è nessuna scelta da prendere. Si pone qui anche il problema di “documentare”, in quanto manca la verità/realtà, mancano le “persone”, etimologicamente intese come maschera: qui non c’è neanche quella. Si possono elencare almeno tre chiari esempi di negazioni: quando Anoosh e Arash si rendono conto che il luogo dove rischiano di meno a organizzare i loro raves è il deserto, per antonomasia luogo di negazione della vita; il fatto che tutti, per sopravvivere, debbano sempre dissimulare, negare le proprie aspirazioni; la palpabile precarietà delle scelte registiche, che fa di necessità virtù.

Trattandosi della storia di due dj, la musica ovviamente ha un ruolo fondamentale: ogni volta che si tocca l’apice del divertimento (nel senso etimologico di pensare ad altro), sopravviene la musica tradizionale, simbolo ambivalente di condanna o semplicemente ricordo nostalgico delle proprie origini.

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