La meglio gioventù africana

di | 15/07/2021

Il milgior cinema africano, nella forma e nei contenuti, premiato in un’edizione quasi normale (a pochi giorni dalla riapertura degli eventi pubblici) del festival di Nyon

Una immagine di Faya Dayi di Jessica Beshir

Una immagine di Faya Dayi di Jessica Beshir

Quest’anno la giuria di Visions du Réel ha avuto compito facile: Faya Dayi di Jessica Beshir è decisamente su un altro livello rispetto agli altri film, alcuni dei quali pure notevoli. Con il pretesto di documentare la produzione del qat, una pianta le cui foglie, masticate, inducono stati di euforia, e il cui traffico genera importanti profitti, ci immergiamo nella vita di Mohammed, della sua difficile situazione familiare, della sua voglia di evadere e di farsi una nuova vita in Europa con tutte le note annesse difficoltà. Per qualche strano motivo l’Africa è sempre sorprendente quando viene ripresa in bianco e nero: la luce è ancora più accecante ed il buio ancora più profondo, e basta uno stormire di foglie perché la loro ombra dia vita persino ad un muro di fango secco, mentre l’acqua è sempre un miracolo (anche quando forse non è così rara come si pensa).

Ancora nel concorso internazionale due film che si interrogano sul potere sempre più incontrollabile delle macchine: Bellum – The Daemon of War di David Herdies e Georg Götmark e Users di Natalia Almada. In entrambi i film il punto di partenza è il fascino ambiguo per le macchine, simbolo (fin troppo) concreto del progresso tecnologico e dell’ambizione dell’umanità, mai così intensa, di sostituirsi al dio creatore e manipolatore dell’universo. Ma mentre Herdies e Götmark assumono un atteggiamento critico chiaro, la Almada, con le sue immagini così ben costruite e così “belle”, al limite del kitsch, non nasconde l’autoindulgenza verso questo fascino e l’incapacità di andare al di là degli schemi usuali. Per i primi infatti l’uomo è posseduto da un demonio, mentre per la seconda si tratta di imparare a gestire un potere che forse già da tempo è andato fuori controllo.

Evidentemente un anno di pandemia, restrizioni e confinamenti è un periodo ancora troppo breve per vederne gli effetti nel cinema, perfino in quello di non finzione. Uno dei pochi di film di questa edizione di Visions du Réel in cui si (intrav)vedono maschere è Searchers di Pacho Velez (nella sezione Burning Lights), impacciata indagine sull’efficacia delle applicazioni online per cercare l’anima gemella. In tempi di confinamento i cosiddetti social media e i siti di conoscenza diventano necessariamente l’unico mezzo per stabilire e mantenere contatti, ed è significativo che sia una catastrofe planetaria a decretarne il successo. Ma proprio questa loro unicità/necessità ne mostra la intrinseca debolezza: il film mostra in effetti come questi strumenti siano solo un molto pallido succedaneo dei veri contatti, siano essi fisici, emotivi, intellettuali o spirituali. Sui volti in primo piano delle persone alla ricerca di un partner si proiettano i profili dei possibili candidati, in un gioco tra aspettative, descrizioni spesso divertenti, a volte improbabili, reazioni immediate e freddezza del mezzo informatico.

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